Lui racconta e tu vedi, vedi proprio le luci e le ombre, come in un quadro di Rembrandt dice lui, come in un quadro di Caravaggio penso io.
Racconta del buio sugli autobus cinesi che fino a tutti gli anni ‘90 non avevano luci interne. Lui è lì, sul bus, proprio nel momento in cui la luce se ne va e l’autobus resta al buio. E la scena: mamma cinese, figlio diciottenne appena diventato operaio regala al fratellino il piccolo dizionario tascabile della lingua cinese (quello con cui sono cresciute generazioni di cinesi e anche generazioni di persone che, fuori dalla Cina, studiavano il cinese). Il ragazzino apre il dizionario, rapito, ma ecco, l’ultimo raggio di sole se ne è andato e l’autobus piomba nel buio. Delusione. Ma la mamma sa: tira fuori una torcia dalla borsa e illumina il libro. La magia delle parole può riprendere.
Inizia raccontando la propria esperienza di studente in Cina Sergio Basso nel suo spettacolo Te la do io la Cina (14 dicembre a Bologna). La sua Cina assomiglia molto alla mia, penso: giorni e notti in lunghissimi viaggi in treno, in yìngzuò 硬座, cioè sui “sedili duri” della classe economica, per scoprire la Cina; scenate all’impiegata alla stazione perché non ci trova un posto per il giorno stesso su un treno da Xi’an per Pechino – scenate che ci aiutavano a imparare la lingua si, ma che avevano l’arroganza di chi si sentiva potente in un paese arretrato. E poi quella volta che la stufa si spegne a meno trenta e a me pare che racconti di quando era successo lo stesso a noi in una yurta nella Mongolia cinese. Racconta dell’avventura di raggiungere luoghi nuovi, sperduti, che nascondono tesori. Ecco, mi dico, condividiamo la stessa storia di giovani student* stranieri che andavano alla scoperta della Cina. E mi aspetto che questo sarà il tono del monologo che ha appena iniziato, ma poi non è così.
C’è che lui ha vissuto da studente in Cina negli anni ’90, almeno una decina di anni dopo rispetto a quando ci vivevo io, e quindi aveva libertà – ad esempio quella di avere un maestro “tamarro” di calligrafia al tempio buddista – che qualche anno prima sarebbero state impensabili (le libertà noi ce le prendevamo di nascosto, come quella volta che siamo salite prima dell’alba su un bus dove ci si sedeva sopra al motore per stare calde, e siamo scappate verso quelle zone della Cina che allora erano vietate agli stranieri).
C’è che lui è un maschio, e quindi va a giocare a pallone con i giovani monaci buddisti a Pechino, o anche, a migliaia di kilometri da Pechino, incontra un monaco che prende la sua mano assiderata e se la mette sotto l’ascella per far rifluire il sangue.
Ma soprattutto c’è che mentre io annuso qualsiasi cosa mi parli di sociale in una Cina che cambia ogni minuto, lui vede, scopre e va a caccia del bello, del sacro, del religioso, del vuoto, del nirvana, dell’arte. Cosi, nel suo monologo ci porta altrove, nella Cina del seicento (non 1600!), ad esempio. Ci insegna che la poesia cinese, incastonata nella pittura, è rap ante litteram e ce lo fa sentire; e ci porta nella contaminazione tra arte greca e arte cinese. Tutto questo affabulandoci con storie, semplici, belle, affascinanti, come quella dello studente che va agli esami imperiali in Cina e incontra un monaco (i monaci, la costante di questo monologo!) taoista che facendogli vedere il suo futuro cambierà il suo destino. E la storia del pittore cane, umiliato perché abbracciava il nuovo; e la storia di come il quinto patriarca buddista chan, Hongren, abbia scovato il suo successore in Huineng (siamo di nuovo nel seicento), un analfabeta che tagliava la legna al mercato … a dispetto di tutti i monaci eruditi che affollavano il suo convento sulla montagna Huangmei.
Tutto il bello – umano e sovrumano – che la tradizione cinese può offrire Sergio l’ha colto, illuminato per noi e ce lo offre con un sorriso strafottente.
Era da anni che il teatro non mi avvolgeva così …. Andate a vedere il monologo di Sergio Basso non appena ne avrete l’occasione. Vi sentirete più ricch*.
insegna China in Africa e Sociology of Migration all’Università di Bologna. Ha tenuto il suo primo corso universitario su China in Africa all’Università di Vienna nel 2011, quando la comunità accademica internazionale e gli analisti nel mondo stavano appena iniziando a riflettere sulle implicazioni della crescente presenza cinese in Africa. Si occupa da decenni di migrazioni e di gruppi diasporici cinesi, con un focus in particolare sulle tematiche del lavoro, sulle interazioni con la Cina, e sul controllo diasporico digitale. È autrice del libro City Making and Global Labor Regimes. Chinese Immigrants and Italy’s Fast Fashion Industry (Palgrave-Macmillan, 2017).
Che bella descrizione! E che bello spettacolo!
Le 36 ore di treno, la bellezza delle piccole cose, delle piccole scoperte quotidiane, le conquiste linguistiche (capisco cosa ha detto!) e comportamentali (meraviglioso come il monaco tamarro insegna al giovane occidentale a non essere troppo ossequioso!), l’apertura verso un mondo diverso ma in fondo non troppo, e l’accettazione dentro di se di altri parametri estetici (il “roveto”!), ci riportano all’esperienza degli anni novanta. Mi chiedo come saranno i “Sergi Bassi” del futuro!
Grazie, Sabrina!, gia’ … ho dimenticato di citare il roveto, uno dei punti piu’ divertenti e allo stesso tempo istruttivi del monologo …
interessante testimonianza di una Cina che non c’è più e che mi ricorda alcune cose della mia giovinezza, dai viaggi allucinanti sui sedili duri e il dizionario sul quale avrò perso qualche grado dei miei occhi.
Antonella sarebbe interessante se anche tu condividessi i ricordi dei tuoi viaggi cinesi.
Caro Marco,
per il momento posso solo ricordare un momento drammatico/comico della prima notte passata a dormire in yurta (altri la scrivono iurta) nella Mongolia cinese: noi quattro liuxuesheng stavamo nella yurta, mentre il signore che ce l’affittava dormiva in una casa di mattoni li’ accanto. La sera la stufa della yurta si e’ spenta e noi cominciavamo a rabbrividire. Allora ci siamo fatt* coraggio e siamo uscit* per andare a chiedere come fare. Il cielo stellato tutto intorno rimane una delle piu’ belle cose che ho visto nella mia vita ma il freddo era letteralmente agghiacciante. Una volta nella casa di mattoni volevamo dire che il fuoco si era spento ma non sapevamo come dirlo. Allora abbiamo detto ‘Il fuoco e’ morto’ (火死了huo si le). Il signore ci ha guardat* preoccupato: ‘Chi e’ morto? (谁死了?Shui si le?) e noi ‘火死了’ huo si le. Siamo andat* avanti per un bel po’ ripetendo quelle stesse frasi prima che lui sorridesse ed esclamasse ‘Wo mingbai le, huo mie le 我明白了,火灭了’ cioe’ ‘ho capito, si e’ spento il fuoco’!