Cosa resta dell’orto

La piana

19 settembre 2021. Guido da ore perso in grovigli di vie secondarie, limitrofe a strade percorse distrattamente infinite volte nel continuum indistinto della piana pratese-fiorentina tra capannoni industriali, aree incolte e spazi rurali, sottopassi e centri commerciali. Cerco orti visti tante volte con la coda dell’occhio, o forse solo immaginati, sfrecciando sulla tangenziale di Prato Est. Finalmente, dopo un tratto di sterrata in bilico lungo uno dei tanti canali di drenaggio medicei, mi ritrovo di fronte a quelle pergole, parcheggio. L’orto quindi esiste, si tratta effettivamente di un’azienda agricola cinese, come la grande varietà di colture, appena intuibile nel tempo accelerato della guida, lasciava supporre. La brezza del tardo pomeriggio, che sembra generata dal rombo costante dell’autostrada poco lontana, fa vibrare le foglie bruciacchiate del kǔ guā (苦瓜), i cui frutti arancioni ondeggiano appesantiti dai semi maturi che tra poco sfonderanno la polpa del frutto ormai molle cadendo a terra. Si tratta di una cucurbitacea amara molto apprezzata quando è ancora verde e croccante. Sul filare successivo le foglie coriacee dei sī guā (丝瓜) sembrano aver sopportato meglio il caldo estivo, il frutto di questa luffa striata è chiamato localmente bā léng guā (八棱瓜), i suoi fiori ricordano quelli del cetriolo, piccoli lampi giallo limone che punteggiano l’interno ombroso dei tunnel-pergolati, capolavori di ingegneria rurale creati con materiali eterogenei come legni trovati e canne di fiume legate tra loro con tessuti sgargianti – gli scarti del pronto moda. Oltre i sī guā (丝瓜) le pergole di legenaria sono a fine stagione: i gusci ormai lignificati del pú guā (蒲瓜), secondo la denominazione in wēnzhōuhuà, penzolano dai tenerumi (tralci) rinsecchiti come strani animali rigonfi – ciascuno contiene infatti al proprio interno centinaia di semi, che a fine inverno saranno pronti per germinare nel tempore di una semenzaio, per essere poi trapiantanti in piena terra. 

Aprile 2024. Nell’arco di pochi giorni, tra inizio e fine aprile, una grande orto cinese a conduzione familiare – che da anni produceva verdure a km0 -, è scomparso improvvisamente. Pare che, dopo una confisca, sia passato nelle mani di nuovi affittuari che l’hanno letteralmente livellato con arature in profondità. Le zucche di pú guā (蒲瓜), onnipresenti a inizio mese, sono state triturate, impastate con la terra, sepolte insieme ai pergolati di sī guā (丝瓜). 

La sparizione delle aziende cinesi è in realtà un fatto ricorrente. Poco prima della pandemia, sull’altra sponda del fiume, era successa una cosa analoga. In quell’occasione alcuni media locali avevano cavalcato la notizia della confisca, fino a promuovere una  campagna di monitoraggio “spontaneo” delle attività orticole cinesi da parte dei lettori, a cui erano stati offerti recapiti per segnalare “anomalie o pericoli in prossimità degli orti cinesi”. Al di là delle ragioni specifiche per cui gli orti sono stati di volta in volta (sistematicamente?) confiscati a partire dal 2009, quello che colpisce è il risvolto mediatico di questi eventi, e il linguaggio usato, inevitabilmente impregnato di una retorica che stigmatizza quella biodiversità percepita come aliena e invasiva.  Pochi mesi dopo, in piena crisi sanitaria, i filari morti di ortaggi cinesi raccontavano l’assurdità di quella confisca a chi per ore attendeva il proprio turno per entrare nell’unico supermarket della zona rossa, in cerca di pomodori che per arrivare in questo angolo di Toscana avevano viaggiato centinaia di chilometri. Già l’anno successivo non restava traccia di questo importante capitolo di storia agricola locale (e globale).

8 maggio 2024. La recente sparizione mi riporta alla mente gli orti dell’autostrada: riaffiora il ricordo della loro melanconica bellezza di fine estate, con i giorni sempre più corti e il lampeggiare degli ultimi fiori nel verde cupo delle fronde. Alla prima occasione lancio un occhio oltre il guardrail della tangenziale in cerca delle pergole ma quello che vedo sono campi incolti. Gli ultimi 2 anni sono volati via distrattamente, penso. Esco a Firenze nord e torno indietro verso l’intersezione, ormai conosco i grovigli di stradine e sottopassi e rapidamente raggiungo quel fazzoletto di terra chiuso tra tangenziale e A1. Gli orti sono effettivamente scomparsi. Non c’è traccia dei pergolati, non una singola cucurbitacea sembra essersi naturalizzata, neanche una brassica ai margini dell’appezzamento o nelle canalette drenanti. Mi incammino nel campo tra comuni erbe selvatiche: non è rimasto niente di quel tripudio di biodiversità inattesa, come se quel prodigio intercontinentale di ingegno rurale  e acclimatazione vegetale non fosse mai accaduto. Chiedo informazioni ad alcuni passanti che mi raccontano di una confisca, definita “mega retata”, due anni prima, quando i cinesi sono stati mandati via. Sembrano soddisfatti, “avevano preso tutto loro” dicono, e borbottano qualcosa su presunti “trattamenti anomali”: “usavano tutte cose proibite qui in Europa… concimi, noi si respiravano… viviamo qui…. concimi proibiti qui da noi” – anche se poi ammettono che i loro cocomeri “facevano gola a molti”, alludendo a furti ai danni degli agricoltori. Mi congedo con scetticismo e sto per andarmene quando vedo avvicinarsi un trattore con aratro a traino, gli aironi gli si fanno subito intorno per banchettare nella terra appena aperta. Il trattorista (italiano) è anche il nuovo affittuario, pianterà tutto a mais mi dice. Certamente, penso, con la monocultura aumenteranno anche i trattamenti, inclusi gli erbicidi, particolarmente impattanti – e che non ho mai visto utilizzare nelle molte aziende agricole cinesi che ho conosciuto in questi anni. Penso anche che nessun vicino protesterà contro questi “trattamenti a norma”, e che nessun giornale locale insinuerà nel lettore il dubbio che quei prodotti agricoli, irrigati con “acque putride” in “terre pericolose” potrebbero “finire sulle nostre tavole” (per citare espressioni spesso utilizzate), perché anzi ne siamo certi: mangeremo quel mais, pacificamente.

27 ottobre 2024. Ripercorro quel labirinto ormai familiare di strade limitrofe e parcheggio sullo slargo a ridosso del fossato come le altre volte. Di fronte a me l’esito dei lavori agricoli di maggio: dove un tempo coabitavano lussureggianti filari biodiversi capaci di produrre cibo per la comunità impera un’anonima monocultura di mais. Salto oltre il fosso, passeggio tra le piante rinsecchite e marcescenti, il mais infatti non è stato raccolto – mi chiedo se lo sarà mai visto che le sovvenzioni europee vengono comunque erogate – e appare in uno stato di decadenza. Sbuccio un paio di pannocchie, sono piccole, smangiucchiate da parassiti, si sbriciolano tra le mani.  

Leone Contini, ottobre 2024

*Questo testo è parte di Semenzaio, un progetto di ricerca supportato dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura nell’ambito del programma Italian Council (2023)

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